Bunuel – Il piccolo capolavoro hardcore di Capovilla
Per gli stranieri, si, ma come gli stranieri di Camus. Per orecchie ancora disposte a recepire la peste, ad ascoltarla, e soprattutto ad affrontarla per affermare la volontà di sopravvivere in questo mondo nella maniera più viscerale, dolorosa ma sincera, possibile.
Questo primo sorprendente lavoro dei Buñuel – “supergruppo” indie composto da Pierpaolo Capovilla e Franz Valente de Il Teatro degli Orrori, da Xabier Iriondo degli Afterhours e da Eugene Robinson, raffinato intellettuale del rock avant-garde americano e fondatore degli Oxbow, storica formazione del noise statunitense – mi ha fatto pensare a molte cose, in fretta e furia, tra tessiture sonore e vocali all’acido fenico e richiami alla migliore tradizione degli Scratch Acid e dei The Jesus Lizard, ma anche a mio parere dell’Industrial e degli ultimi lavori di Scott Walker. Mi ha fatto pensare per giustapposizione di linguaggi artistici, come suggerisce il nome stesso della band, certamente ai primi corti sperimentali del cineasta Luis Buñuel, ma anche ad alcune pagine di Albert Camus e ai quadri di Francis Bacon, come tuttavia se quei quadri fossero sul punto di esplodere da un momento all’altro.
L’instancabile chitarra di Xabier è forse la vera Whipsaw (“sega da tronchi”, per citare il titolo dell’ultimo brano) dell’intero tessuto sonoro dell’album ed interseca alla perfezione le parti vocali – a cappella, hardcore, cupe o baritonali in totale, espressionista, libertà –, grazie ad una sezione ritmica che, con un basso che suona come un carrarmato (un vero “carrarmatorock!”, come sempre con Pierpaolo) ed una batteria aggressiva quanto precisa, costruisce una vera e propria muraglia.
Un disco in definitiva autentico ed evocativo, poiché evoca stagioni fertili del passato della musica underground in modo magari non sempre originale ma mai insincero, e poiché evoca una vera e propria tempesta acustica da cui trapela, semplicemente, il desiderio di far musica e di suonarla a tutto il volume possibile, di suonarla dal vivo perché in qualche modo è proprio la musica che tiene vivi ancora. E anche questo è amore, This Is Love, come recita la traccia che preferisco.
Giulio Pantalei